Poco prima che la tromba del silenzio ponesse fine alle nostre attività, venne nelle camerate l’ufficiale di Sciarpa con un telegramma proveniente da Loreto e a noi diretto, che consegnò al nostro Capocorso perché ne desse lettura.
Il suo testo diceva solo queste parole: “Tremate pingui, che arriviamo. Firmato il Pegaso”.
Per tutti noi che ci affollavamo incuriositi e già in pigiama attorno al Tita, quelle poche parole furono come una doccia fredda che spazzò via i sogni dalla nostra testa riportandoci bruscamente alla realtà. Ci sorprese soprattutto che qualcuno di cui conoscevamo solo il nome, il Pegaso, un’entità astratta, avesse avuto l’idea di telegrafare una minaccia collettiva al corso Rostro, che noi avevamo cominciato a percepire solo superficialmente, com’era del tutto naturale, ma che, per contro, sembrava già essere un obbiettivo ormai saldamente agganciato dal….radar di tiro dei nostri dichiarati rivali del secondo anno accademico.
Dopo alcuni attimi di sbigottimento, l’ufficiale ebbe la discrezione d’andarsene senza interferire e cominciarono i primi commenti concitati e confusi. Presero corpo anche alcune timide proposte orientate ad impedire che la minaccia incombente potesse sorprenderci impreparati addirittura quella stessa notte.
Non vi era dubbio che quel telegramma ci avesse istintivamente posto in uno stato di allarme rosso, con tutte le esagerazioni che avevamo sentito raccontare a proposito di spinguinature. Si ragionò sull’ipotesi di istituire, dopo il segnale del silenzio, turni di guardia, magari anche accompagnati da rudimentali sistemi passivi d’allarme, volti ad impedire entrate furtive nella nostra zona, senza tuttavia giungere ad alcuna decisione. Nella fibrillazione generale, ad un certo punto da qualche parte si levò sopra le altre una voce che si limitò invece a proporre:
“Perché, intanto, non facciamo noi al Pegaso lo scherzo del sacco nel letto, così se lo trovano stanotte quando rientrano?”
A questa uscita piuttosto estemporanea e lontana da ogni precedente schema di ragionamento ci guardammo perplessi l’un l’altro, e fu così che per la prima volta scomparve ogni sentimento di rivalità e di diffidenza reciproca e cominciammo a vederci sotto una prospettiva nuova, quella cioè di persone che stavano in pericolo sulla stessa barca ed avevano la necessità di fare qualcosa che avesse una valenza comune.
E’ difficile con le parole rendere conto del processo psicologico che portò il nostro corso, a partire da quella prima sera, a compiere una iniziale metamorfosi, peraltro nei pochi minuti che mancavano allo spegnimento delle luci ed al suono del silenzio.
Lo faremo con l’aiuto di quella famosa commedia del teatro napoletano in cui il protagonista, il grande Eduardo De Filippo, recitava la parte di un autorevole caporione di un malfamato quartiere di Napoli, cui la gente si era rivolta per avere un parere su come vendicarsi delle angherie quotidiane poste in essere da parte di un barone prepotente e superbo.
Sulla scena Eduardo, dopo aver ascoltato tutte le proposte di vendetta prospettategli dai suoi assistiti, che venivano tuttavia da lui regolarmente scartate perché egli riteneva fosse necessario, contro un rivale così presuntuoso, far ricorso a qualcosa di “peggio”, peggio perfino dell’omicidio, dopo una prolungata riflessione che aumentava l’attesa del responso, se ne usciva, tra la sorpresa e gli applausi degli spettatori, con la imprevedibile battuta:
“Gl’avimm’a fa’ o pernacchio!”
Ecco. La proposta del sacco nei letti dei nostri rivali ci sorprese altrettanto di quanto lo furono gli spettatori presenti a quella famosa rappresentazione. Il sacco sarebbe stato un gesto d’orgoglio collettivo, con lo stesso significato irridente e detronizzante che avrebbe avuto il pernacchio per quell’antipatico barone egocentrico.
La decisione fu presa e, dopo lo spegnimento delle luci, mentre tutti ci credevano nelle braccia di Morfeo sfiniti da tante fatiche ed emozioni, ci stavamo invece attivando nella diafana luce azzurrina delle camerate altrui per dare corso a quello scherzo un po’ ingenuo, ma psicologicamente assai efficace, a danno di chi con tanto clamore postelegrafonico aveva avuto la presunzione di incuterci un timore reverenziale.
Solo parecchi anni dopo ci fu chi, nei seminari di arte militare, cominciò a parlare di guerra asimmetrica che, ad onor del vero, inventammo noi in quella notte del 1956 passata in piedi.
Molto più tardi, finalmente a letto, gongolammo nel sentire le esclamazioni di disappunto provenienti dalle camerate del Pegaso rimbombare per tutto il corridoio. Ancor più, il mattino successivo, ci sentimmo compiaciuti di apprendere da bene informati che il nostro scherzo, dopo un iniziale stupore, aveva finito per riscuotere un timido apprezzamento di buona parte dell’intellighenzia accademica, che aveva espresso commenti lusinghieri del tipo:
“Saranno anche gli ultimi arrivati ma, perbacco, questi figli di buona donna sembrano aver già capito cos’è lo spirito di Corso!”
Nel dare inizio alla nostra storia, è stato naturale riandare con la memoria a quella prima sera nella Palazzina Allievi, che ha lasciato una traccia profonda in tutti noi.
Non v’è dubbio infatti, che quello sia stato il momento in cui un gruppo di individui singolarmente distinti, se non addirittura in competizione tra loro, quali eravamo stati fino a poche ore prima, iniziò a trasformarsi in una compagine pronta a decidere e ad agire all’unisono senza tenere conto, pur di affermare orgogliosamente la propria nuova identità collettiva, delle possibili conseguenze cui ciascuno poteva andare incontro a seguito di una violazione così esplicita delle norme di comportamento.
Per noi il Rostro è nato quella sera, ne siamo tutti consapevoli, quella sera in cui, un po’ scherzando ed un po’ facendo sul serio, vincemmo la nostra prima sfida. E da quel momento, al carattere che manifestammo in occasione di quel primo gesto comune, carattere fiero, ombroso, indipendente, solidale e, quel tanto che bastava, anche scherzoso, irriverente e dissacrante, facemmo sempre ricorso nei momenti positivi e negativi incontrati nel prosieguo della nostra vita accademica.