Il campo d’arma
“Maestro”, chiesi, “quale spirto è questo
che miro in tal sembiante tanto arcano?”
“Discepol”, mi rispose, “il dico presto…”
(Inferno nisidiano – Canto III°)
Mese dopo mese,
con poche distrazioni e molti mugugni, arrivammo anche agli esami del secondo
anno, nel corso dei quali, ammaestrati dalle pregresse esperienze, registrammo
qualche ferito, ma nessun KO definitivo da parte dell’infida e sempre temibile
commissione.
Per premio, ci
rimandarono alle nostre case per riabituarci ad alzarci alle dieci e ad andare
a letto alle tre di notte, in modo da farci ritrovare, al rientro in sede, il
disagio della sveglia all’alba e del sonno al tramonto, che temprano il
soldato.
Le due settimane
di licenza passarono in un lampo e furono appena sufficienti a riportarci ad
una consuetudine familiare bruscamente interrotta dal nostro ingresso in
Accademia, nonché a trascorrere qualche
pomeriggio con i compagni di scuola e con gli altri amici fatti da studenti.
Ci sentivamo
fortemente appagati dal ritorno alle nostre città ed in famiglia, ma la
felicità che riempì giornate di libertà mantenne sempre un vago sapore di
provvisorietà, lasciandoci l’impressione che nulla potesse più essere come
prima e che, rispetto all’Aeronautica, le altre cose fossero solo parentesi,
per quanto splendide e da tenere comunque care.
A conclusione
della licenza, avevamo l’obbligo di rientrare in servizio direttamente presso
la sede dell’Accademia Militare di Modena. Da lì saremmo partiti il mattino
successivo di buon’ora per raggiungere i nostri colleghi del 13° corso
dell’Esercito, da vari giorni già sotto le tende del campo estivo allestito tra
Sant’Anna e Pievepelago, ridenti cittadine degli Appennini e terra della prima
medaglia d’oro olimpica italiana di discesa libera, in famoso Zeno Colò.
Nel tardo
pomeriggio, convergendo su Modena alla spicciolata da località e ad orari
diversi, il corso Rostro si ritrovò al completo nell’austero palazzo
dell’Accademia Militare, destinato ad ospitarci per quella sola notte.
Fu sufficiente
scambiare tra di noi una sobria pacca sulle spalle per avvertire come la
vicinanza dei compagni di corso riuscisse ad anestetizzare i rimpianti per le
cose lasciate nuovamente dietro di noi, e le preoccupazioni per quelle da
affrontare, prima fra tutte quella di volare domando i 650 cavalli del motore
del velivolo T-6 che ci attendeva dopo il campo d’arma.
Ma eravamo sereni
e determinati, sapendo di aver già domato ben altri cavalli, a cominciare dal
Pegaso.
E subito dopo le
missioni sul T-6, sarebbe partita la sessione autunnale d’esami per i
rimandati, seguita dall’avvio del nostro terzo ed ultimo anno di Nisida, quello
però fatto da signori aspiranti riveriti, coccolati e molto raramente puniti.
Il canonico quarto
anno d’Accademia si sarebbe svolto a Lecce e alle altre successive Scuole di Volo,
a seconda della specialità ritenuta insindacabilmente idonea a seconda delle
attitudini di ciascuno di noi, e si sarebbe concluso con l’ottenimento del
brevetto di pilota militare.
Dopo una cena alla
mensa allievi di Modena veramente frugale e poco appezzata, per lo meno al
confronto non solo dei manicaretti di casa appena finiti di gustare, ma anche
delle stesse pietanze prodotte dalla mensa della nostra Accademia, ci
trascinammo pigramente nei malinconici cameroni prestatici dai nostri colleghi
dell’Esercito. Constatando la essenzialità della logistica dell’Esercito, fummo
ancor più convinti di essere stati doppiamente fortunati scegliendo l’Arma
Azzurra.
Al mattino, come
previsto, ci imbarcammo sui pullman A.M. giunti per noi da Nisida e, preceduti
da una autovettura con a bordo Capitan Pochetto e tutto il suo staff, dopo un
viaggetto attraverso località amene ed invitanti giungemmo finalmente a
destinazione.
Ai nostri occhi si
presentò un vasto pianoro pieno di tende già installate con precisione
millimetrica.
Restammo un po’
interdetti. Su tutta l’area, infatti, le attività fervevano quasi come se, per
qualche cedimento della linea del fronte, ci fossimo trovati a ridosso delle
linee nemiche in piena azione di sfondamento.
Un gruppo di
allievi di Modena, con lo zaino affardellato, l’elmetto in testa e il fucile in
spalla, con il volto coperto da crema mimetica, stava rientrando al campo lungo
uno stretto sentiero. Da come camminavano, sembravano provati dal calore estivo
e dallo sforzo speso nella vivace azione di presa di contatto e frenaggio a
danno delle avanguardie del nemico, oltre che dalla quantità di chili che
avevano sulle spalle.
Un altro gruppo,
sovraccarico di cassette di bombe a mano, stava invece muovendo per raggiungere
la località destinata ad un assalto in piena regola ai fianchi del pericoloso
saliente avversario, incitato dalle urla di alcuni sergenti, urla tanto forti
da essere udibili anche dai loro colleghi di un terzo gruppo, benché questi
ultimi avessero ancora i timpani che fischiavano a causa delle forti
deflagrazioni della batteria di obici 105/22, da loro utilizzata, dalla sommità
di una collina vicina al campo, in un’azione di tiro di ammorbidimento contro
predisposizioni nemiche che dovevano essere particolarmente robuste, visto il
numero delle salve sparate.
In questa bagarre,
l’intervento aereo di appoggio ravvicinato alla prima schiera amica era del
tutto assente, nel senso che noi guardavamo senza fare niente tutti questi
armati andare o venire, e loro facevano lo stesso con noi, che oziavamo sul
prato fumando qualche sigaretta, in attesa dell’arrivo di Pochetto.
Egli, infatti, era
stato attardato da una doverosa visita di cortesia alle autorità civili del
luogo.
Dopo qualche
giorno, quando riuscimmo a fraternizzare con i colleghi di Modena, questi ci
confessarono di essersi meravigliati che noi fossimo lì a bighellonare, mentre
loro erano sempre carichi come muli e non avevano mai un attimo di tregua. Tra
l’altro, il loro stupore raggiunse il colmo
vedendo che, al nostro arrivo al campo, la schiera servizievole dei
nostri famigli, venuti apposta da Nisida, si prendeva cura dei nostri bagagli
ed un’altra schiera di corredisti era già pronta a riporre, debitamente appese
in una grossa tenda corredo, le nostre uniformi da libera uscita, dopo averle
accuratamente spazzolate, nonché a ritirare la nostra biancheria da lavare ed a
sostituirla con i corrispondenti
ricambi, colletti inamidati e guanti bianchi inclusi.
Più che un corso
di allievi, sembravamo una delegazione di turisti facoltosi scesi al Ritz
Carlton.
Insomma, ad
accoglierci al campo d’arma mancavano solo le nostre mamme e le morose, con il
loro bacio di benvenuto, laddove essi, da veri soldati, dovevano invece
arrangiarsi per qualsiasi necessità.
Per un po’ ci
“arramenammo accà e allà”, mentre Pochetto, comparso giusto solo per
farfugliare qualcosa di incomprensibile come al solito, preferì di nuovo
defilarsi per la prima di quelle che sarebbero state le sue quotidiane
ricognizioni armate nell’area della battaglia. Evidentemente sentiva il dovere
di saggiare le posizioni avversarie nel territorio conteso di Ca’ Lupo Bianco,
un locale molto alla moda e sempre animato, nonostante si trovasse nell’area
delle operazioni. Da quelle parti, secondo le segnalazioni del Comando
d’Armata, si poteva acchiappare di tutto, compresa una spia nemica travestita
da bionda e affascinante villeggiante. Le istruzioni raccomandavano di passarla
senz’altro per le armi, ovviamente dopo una rapida ma esaustiva corte marziale
tenuta in una camera da letto del vicino hotel.
Ma la nostra
paziente attesa del da farsi fu interrotta da un ufficiale dell’Esercito che ci
invitò perentoriamente a montare senza indugio le nostre tende, a meno che non
volessimo passare la notte all’aperto,
ovvero non volessimo gentilmente disporre a che vi provvedessero i nostri
famigli, magari con cortese sollecitudine (sic!).
E ci furono
bruscamente scaricati, in mezzo allo spiazzo erboso lasciato libero per noi,
vari borsoni contenenti teli, corde e picchetti, nonché le pale necessarie alla
realizzazione delle canalette di deflusso delle possibili acque piovane.
L’Accademia di
Modena doveva essere piena di pessimisti, o di gente coi calli meteoropatici!
Non essendo adusi
a tali opere da castrum romano, avemmo l’impressione che pretendessero da noi
la rifondazione della città di Troia sull’Appennino tosco-emiliano, al riparo
dai coturnati achei.
Dopo vari
tentativi piuttosto maldestri di drizzare le tende, subito regolarmente
spiantate per l’evidente precarietà delle medesime, all’imbrunire il nostro
campo fu finalmente approntato. Lo fu solo grazie all’aiuto di numerosi allievi
di Modena, più esperti della materia, generosamente intervenuti al nostro
soccorso.
Ad essi, per
riconoscenza, giurammo copertura aerea garantita su ogni loro futura azione
terrestre contro l’odiato nemico.
La vacanza del
Rostro in montagna poteva così cominciare.
Nessuno di noi
immaginava che essa avrebbe lasciato in tutti noi, come pure nei nostri amici
del 13° corso dell’E.I., un ricordo perenne.
Ogni mattina, dopo
il suono della sveglia e dopo una rapida toletta arrangiata a ridosso di un
lungo tubo forato, da cui zampillava un’acqua gelida, correvamo in massa sotto
una enorme copertura che fungeva da mensa, per una frugale colazione all’italiana,
molto diversa dagli omelette o dagli affettati misti che ci mettevano a
disposizione a Nisida. Non importava gran che se la caffeina contenuta nel
caffellatte non ci svegliava del tutto, visto che fino a metà mattinata i
nostri istruttori dell’Esercito, impegnati con i loro allievi, non potevano
raggiungerci per impartirci le loro lezioni teoriche e pratiche. Avevamo perciò
tutto il tempo per prendere il sole, organizzare programmi per la serata, goderci
l’aria buona, e così via. Ma appena gli istruttori si facevano vedere, era
tutta un’altra musica.
Ben presto
apprendemmo elementi di armi e tiro, minamento e sminamento, camuffamento e
inganno, topografia, tecniche d’assalto a postazioni difensive, ecc. ecc. Le lezioni teoriche e pratiche includevano
tutte le specialità dell’arte militare terrestre atte a completare la nostra
preparazione in senso interforze.
Come il lettore
già sa, l’arte militare navale per noi, dopo l’uscita in mare con le
corvette, non aveva più segreti.
Devo ammettere
onestamente che, alle prese con queste materie non soggette per noi ad alcun
esame, ci divertimmo parecchio, sparando al poligono di tiro e lanciando una
marea di bombe a mano, definite armi ad effetto morale perché il maggior
risultato da esse prodotto era quello sonoro. Erano in fondo assimilabili ai
nostri “fuochi fatui”, solo che esse per fortuna erano dotate di sicura.
Imparammo perfino
a far detonare, ad una distanza da noi sempre più ridotta, varie cariche di
esplosivo, sfruttando le tecniche atte a proteggere le parti vitali del corpo
da eventuali frammenti proiettati dall’esplosione. In queste esercitazioni per
guastatori, ci divertimmo a fare uno scherzo al Gonio, che, pancia a terra nei
pressi della deflagrazione, giurava d’aver sentito i detriti picchiettare sul
suo elmetto. Alla successiva detonazione, quelli di noi che aspettavano il loro
turno di esercitazione gli fecero piovere sulla testa una scarica di sassi che
lo sorprese e fece ridere anche il nostro simpatico istruttore, benché fosse
stato colpito anche lui in varie parti del corpo dalla nostra grandinata. Da
allora, quando dovevamo schivare qualche pericolo, bastava dire: “Attenti ai
detriti!”. E subito tutto il Rostro stava in campana.
Al campo d’arma,
al quale dopo di noi nessun altro corso dell’Accademia Aeronautica fu più in grado
di partecipare a causa della crescente densità dei nostri programmi estivi,
capitò di tutto, a cominciare da Pochetto che, al nostro rientro dalla libera
uscita, discretamente interrogava l’uno e l’altro di noi per sapere quanto
avessimo pagato le consumazioni bevute al Lupo Bianco. Forse non gli tornavano
i conti dei colpi di vita che spesso andava a fare in quel ritrovo.
E credo bene che i
conti non gli tornassero, dato che ci eravamo passati la voce di rispondergli,
ammesso che la sua domanda fosse stata in qualche modo compresa, d’aver speso cifre irrisorie, laddove lui,
come tutti, beccava delle stangate solenni.
Ma se si vuole
passare per le armi le informatrici del nemico, bisogna pur fare qualche
sacrificio personale.
A Pievepelago, il
nostro collega Bacillo mise da parte i suoi acciacchi e gli unguenti puzzolenti
dei suoi frati erboristi, prendendo un ritmo di vita più sano e spensierato.
Favorito così dall’assenza di odori nauseabondi sull’epidermide, trovò l’amore
in una piacente signora del luogo, dotata di reggiseno da alpeggio, nel fior
fiore della menopausa. Ritornato al campo, tra l’altro in colpevole ritardo, lo
vedemmo continuare a sputacchiare nervosamente. Può essere che il sapore del
leccalecca ricevuto come dono di commiato dalla signora, da noi subito
soprannominata “la vecchia”, non fosse stato di suo gusto.
Al pari del famoso
Fanfulla da Lodi, celebrato come Cavaliere di gran rinomanza, il nostro compagno Only You “…..invitato fu un dì in una stanza
/ da una donna di facile amor”, come diceva una vecchia canzone goliardica. Ma
lui, nella pugna, anziché le ferite di Fanfulla comprovanti un’aspra tenzone
combattuta fino all’ultimo alcova, rimediò soltanto un poco eroico arrossamento
sul mento, che lì per lì non riuscimmo a spiegarci. La ragione
dell’inconveniente la venimmo casualmente a scoprire quando lo incontrammo il
giorno dopo in compagnia della sua pantera, da noi subito battezzata come “La
donna baffuta dell’Abetone, detta Musmè, la Venere pelosa”.
Invece un vulnus
più propriamente fanfulliano, dovuto ad un attacco proditorio da parte di una
ragazzotta del luogo venduta al nemico, lo rimediò Spring il quale, ancora
oggi, ringrazia la sua buona stella e gli speziali del luogo se riuscì a
salvare la pelle (o la pellecchia, non ricordo bene).
Anche il Dadola,
per la prima volta uscito dai confini del Regno Borbonico che lo aveva
fraternamente assimilato, si mostrò entusiasta del contesto sociale muliebre da
lui incontrato nei borghi appenninici viciniori al campo e appena evacuati dal
nemico in rotta, tanto che fu sentito esclamare imprudentemente più volte ed ad
alta voce: “Evviva il Nord!”.
La sua ragazza di
Napoli, quando fu dettagliatamente informata delle circostanze e delle ragioni
di tanto entusiasmo, lo perdonò solo dopo averlo sottoposto a mesi di penitenza
e ad una sofferta, ma depurativa, cura di vitto ….in bianco.
Per la rabbia del
tradimento del Dadola fatto a dispregio del Regno delle Due Sicilie che lo
aveva generosamente adottato, anche l’ultimo in linea dinastica dei Borboni,
che viveva a Napoli lontano dalla vita pubblica, preferì ritirarsi di nuovo nel
forte di Gaeta, preoccupato di un possibile rigurgito rivoluzionario, ora per
allora, del popolo campano.
Purtroppo Spalla
di Vetro proprio lì incontrò la seconda delle cose che non riuscì ad evitare,
vale a dire un proiettile calibro 9 lungo, ma fortunatamente se la cavò senza danni permanenti e con una punizione di
dieci giorni di rigore.
Se ne stava,
infatti, sotto la tenda a coccolare la sua pistola tedesca a canna lunga,
quando un colpo partito accidentalmente dall’arma gli attraversò in diagonale
la coscia, sfiorando per un nulla l’arteria femorale.
Fu portato prontamente
all’ospedale più vicino dove, ai sanitari che lo stavano curando, dichiarò
ripetutamente di essersi ferito da solo, pulendo l’arma. L’inchiesta delle
autorità militari, giustamente pignole, si concluse tra mille dubbi e con molta
benevolenza, con una proposta di sanzione disciplinare di rigore a suo carico.
Spalla di Vetro la scontò appena ristabilito, e tutto finì lì.
Passarono dieci
lustri e poco tempo fa, in occasione dei festeggiamenti ufficiali per il
cinquantenario della nostra entrata in Accademia, il Rostro decise di
organizzare in territorio neutro, il Circolo ufficiali della Marina di Roma, un
pranzo conviviale con gli appartenenti al 13° corso di Modena.
Ci ritrovammo
assieme con qualche acciacco e parecchi capelli bianchi in più, ma con lo
stesso spirito di allora, a commentare le nostre passate avventure campali.
Fu sorprendente il
fatto che per loro il ricordo più vivo di Pievepelago fosse quello di Spalla di
Vetro che si era ferito per imperizia, e ancora ne sorridevano. Ma rimasero
letteralmente di stucco quando noi, conoscendo come erano veramente andate le
cose, spiegammo loro che, in verità, a far partire il colpo di pistola era
stato uno dei loro colleghi, maneggiando maldestramente quell’arma.
Seppero così che Spalla
di Vetro, nonostante lo shock ed i forti dolori, aveva avuto la forza e la presenza di spirito
per controbattere le contestazioni che i medici, in base ai dati balistici
dell’incidente, rivolgevano alla sua descrizione dell’incidente, tra l’altro
suffragata dalle nostre testimonianze. Da persona generosa, il nostro collega
aveva preferito pagare da solo pur di evitare al collega dell’Esercito una
probabile dimissione d’autorità dall’Accademia Militare.
Il Rostro aveva
collaborato a tutelare questo segreto per più di mezzo secolo, ed altrettanto
aveva fatto lo sparatore, rimasto definitivamente ignoto.
Ho già accennato
al segno lasciato in noi da questa comune esperienza con i commilitoni di
Modena con qualcuno dei quali, nel corso della carriera, ci siamo talvolta
incontrati in varie riunioni o abbiamo condiviso posizioni a livello
interforze, sempre con grandi segni di cordialità d’ambo le parti.
Il senso di
appartenere a due corsi tra loro gemellati lo ereditammo da quei venti giorni
di vita all’aria aperta, marciando insieme per i tratturi scoscesi, mangiando
gli stessi i meloni troppo maturi della assai discutibile mensa da campo,
vivendo insieme i nostri rispettivi sogni, condividendo le ore libere, sempre
disponibili gli uni per gli altri. Da entrambe le parti era riconosciuto
l’impegno, la serietà e lo spirito di sacrificio con cui veniva affrontata la dura trafila da allievo ufficiale.
Era quanto bastava
per creare una salda stima e simpatia reciproche, che ci avrebbero fatto
collaborare apertamente anche negli anni a venire, al servizio del nostro
Paese.
Non c’è da
stupirsi se uno degli ultimi giorni di campo d’arma, al rientro dei pullman
dalla libera uscita, l’ufficiale di picchetto e tutto il personale di guardia
si videro sfilare sotto il naso una massa di allievi delle due Accademie con
una divisa sui generis. Ci eravamo scambiati parte delle divise d’ordinanza,
come per dire che, da quel momento, 13° corso e corso Rostro avevano un legame
speciale.
Anche per questa
bravata finale ci furono dei puniti, ma a noi andava bene anche così!