Campo d'Arma - Rostro 1956

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                                                           Il campo d’arma
                         Maestro”, chiesi, “quale spirto è questo
                         che miro in tal sembiante tanto arcano?”
                         “Discepol”, mi rispose, “il dico presto…”
                             (Inferno nisidiano – Canto III°)
Mese dopo mese, con poche distrazioni e molti mugugni, arrivammo anche agli esami del secondo anno, nel corso dei quali, ammaestrati dalle pregresse esperienze, registrammo qualche ferito, ma nessun KO definitivo da parte dell’infida e sempre temibile commissione.
Per premio, ci rimandarono alle nostre case per riabituarci ad alzarci alle dieci e ad andare a letto alle tre di notte, in modo da farci ritrovare, al rientro in sede, il disagio della sveglia all’alba e del sonno al tramonto, che temprano il soldato.
Le due settimane di licenza passarono in un lampo e furono appena sufficienti a riportarci ad una consuetudine familiare bruscamente interrotta dal nostro ingresso in Accademia,  nonché a trascorrere qualche pomeriggio con i compagni di scuola e con gli altri amici fatti da studenti.
Ci sentivamo fortemente appagati dal ritorno alle nostre città ed in famiglia, ma la felicità che riempì giornate di libertà mantenne sempre un vago sapore di provvisorietà, lasciandoci l’impressione che nulla potesse più essere come prima e che, rispetto all’Aeronautica, le altre cose fossero solo parentesi, per quanto splendide e da tenere comunque care.
A conclusione della licenza, avevamo l’obbligo di rientrare in servizio direttamente presso la sede dell’Accademia Militare di Modena. Da lì saremmo partiti il mattino successivo di buon’ora per raggiungere i nostri colleghi del 13° corso dell’Esercito, da vari giorni già sotto le tende del campo estivo allestito tra Sant’Anna e Pievepelago, ridenti cittadine degli Appennini e terra della prima medaglia d’oro olimpica italiana di discesa libera, in famoso Zeno Colò.
Nel tardo pomeriggio, convergendo su Modena alla spicciolata da località e ad orari diversi, il corso Rostro si ritrovò al completo nell’austero palazzo dell’Accademia Militare, destinato ad ospitarci per quella sola notte.
Fu sufficiente scambiare tra di noi una sobria pacca sulle spalle per avvertire come la vicinanza dei compagni di corso riuscisse ad anestetizzare i rimpianti per le cose lasciate nuovamente dietro di noi, e le preoccupazioni per quelle da affrontare, prima fra tutte quella di volare domando i 650 cavalli del motore del velivolo T-6 che ci attendeva dopo il campo d’arma.
Ma eravamo sereni e determinati, sapendo di aver già domato ben altri cavalli, a cominciare dal Pegaso.
E subito dopo le missioni sul T-6, sarebbe partita la sessione autunnale d’esami per i rimandati, seguita dall’avvio del nostro terzo ed ultimo anno di Nisida, quello però fatto da signori aspiranti riveriti, coccolati e molto raramente puniti.
Il canonico quarto anno d’Accademia si sarebbe svolto a Lecce e alle altre successive Scuole di Volo, a seconda della specialità ritenuta insindacabilmente idonea a seconda delle attitudini di ciascuno di noi, e si sarebbe concluso con l’ottenimento del brevetto di pilota militare.
Dopo una cena alla mensa allievi di Modena veramente frugale e poco appezzata, per lo meno al confronto non solo dei manicaretti di casa appena finiti di gustare, ma anche delle stesse pietanze prodotte dalla mensa della nostra Accademia, ci trascinammo pigramente nei malinconici cameroni prestatici dai nostri colleghi dell’Esercito. Constatando la essenzialità della logistica dell’Esercito, fummo ancor più convinti di essere stati doppiamente fortunati scegliendo l’Arma Azzurra.
Al mattino, come previsto, ci imbarcammo sui pullman A.M. giunti per noi da Nisida e, preceduti da una autovettura con a bordo Capitan Pochetto e tutto il suo staff, dopo un viaggetto attraverso località amene ed invitanti giungemmo finalmente a destinazione.
Ai nostri occhi si presentò un vasto pianoro pieno di tende già installate con precisione millimetrica.
Restammo un po’ interdetti. Su tutta l’area, infatti, le attività fervevano quasi come se, per qualche cedimento della linea del fronte, ci fossimo trovati a ridosso delle linee nemiche in piena azione di sfondamento.
Un gruppo di allievi di Modena, con lo zaino affardellato, l’elmetto in testa e il fucile in spalla, con il volto coperto da crema mimetica, stava rientrando al campo lungo uno stretto sentiero. Da come camminavano, sembravano provati dal calore estivo e dallo sforzo speso nella vivace azione di presa di contatto e frenaggio a danno delle avanguardie del nemico, oltre che dalla quantità di chili che avevano sulle spalle.
Un altro gruppo, sovraccarico di cassette di bombe a mano, stava invece muovendo per raggiungere la località destinata ad un assalto in piena regola ai fianchi del pericoloso saliente avversario, incitato dalle urla di alcuni sergenti, urla tanto forti da essere udibili anche dai loro colleghi di un terzo gruppo, benché questi ultimi avessero ancora i timpani che fischiavano a causa delle forti deflagrazioni della batteria di obici 105/22, da loro utilizzata, dalla sommità di una collina vicina al campo, in un’azione di tiro di ammorbidimento contro predisposizioni nemiche che dovevano essere particolarmente robuste, visto il numero delle salve sparate.
In questa bagarre, l’intervento aereo di appoggio ravvicinato alla prima schiera amica era del tutto assente, nel senso che noi guardavamo senza fare niente tutti questi armati andare o venire, e loro facevano lo stesso con noi, che oziavamo sul prato fumando qualche sigaretta, in attesa dell’arrivo di Pochetto.
Egli, infatti, era stato attardato da una doverosa visita di cortesia alle autorità civili del luogo.
Dopo qualche giorno, quando riuscimmo a fraternizzare con i colleghi di Modena, questi ci confessarono di essersi meravigliati che noi fossimo lì a bighellonare, mentre loro erano sempre carichi come muli e non avevano mai un attimo di tregua. Tra l’altro, il loro stupore raggiunse il colmo vedendo che, al nostro arrivo al campo, la schiera servizievole dei nostri famigli, venuti apposta da Nisida, si prendeva cura dei nostri bagagli ed un’altra schiera di corredisti era già pronta a riporre, debitamente appese in una grossa tenda corredo, le nostre uniformi da libera uscita, dopo averle accuratamente spazzolate, nonché a ritirare la nostra biancheria da lavare ed a sostituirla con i  corrispondenti ricambi, colletti inamidati e guanti bianchi inclusi.
Più che un corso di allievi, sembravamo una delegazione di turisti facoltosi scesi al Ritz Carlton.
Insomma, ad accoglierci al campo d’arma mancavano solo le nostre mamme e le morose, con il loro bacio di benvenuto, laddove essi, da veri soldati, dovevano invece arrangiarsi per qualsiasi necessità.
Per un po’ ci “arramenammo accà e allà”, mentre Pochetto, comparso giusto solo per farfugliare qualcosa di incomprensibile come al solito, preferì di nuovo defilarsi per la prima di quelle che sarebbero state le sue quotidiane ricognizioni armate nell’area della battaglia. Evidentemente sentiva il dovere di saggiare le posizioni avversarie nel territorio conteso di Ca’ Lupo Bianco, un locale molto alla moda e sempre animato, nonostante si trovasse nell’area delle operazioni. Da quelle parti, secondo le segnalazioni del Comando d’Armata, si poteva acchiappare di tutto, compresa una spia nemica travestita da bionda e affascinante villeggiante. Le istruzioni raccomandavano di passarla senz’altro per le armi, ovviamente dopo una rapida ma esaustiva corte marziale tenuta in una camera da letto del vicino hotel.
Ma la nostra paziente attesa del da farsi fu interrotta da un ufficiale dell’Esercito che ci invitò perentoriamente a montare senza indugio le nostre tende, a meno che non volessimo  passare la notte all’aperto, ovvero non volessimo gentilmente disporre a che vi provvedessero i nostri famigli, magari con cortese sollecitudine (sic!).
E ci furono bruscamente scaricati, in mezzo allo spiazzo erboso lasciato libero per noi, vari borsoni contenenti teli, corde e picchetti, nonché le pale necessarie alla realizzazione delle canalette di deflusso delle possibili acque piovane.
L’Accademia di Modena doveva essere piena di pessimisti, o di gente coi calli meteoropatici!
Non essendo adusi a tali opere da castrum romano, avemmo l’impressione che pretendessero da noi la rifondazione della città di Troia sull’Appennino tosco-emiliano, al riparo dai coturnati achei.
Dopo vari tentativi piuttosto maldestri di drizzare le tende, subito regolarmente spiantate per l’evidente precarietà delle medesime, all’imbrunire il nostro campo fu finalmente approntato. Lo fu solo grazie all’aiuto di numerosi allievi di Modena, più esperti della materia, generosamente intervenuti al nostro soccorso.
Ad essi, per riconoscenza, giurammo copertura aerea garantita su ogni loro futura azione terrestre contro l’odiato nemico.
La vacanza del Rostro in montagna poteva così cominciare.
Nessuno di noi immaginava che essa avrebbe lasciato in tutti noi, come pure nei nostri amici del 13° corso dell’E.I., un ricordo perenne.
Ogni mattina, dopo il suono della sveglia e dopo una rapida toletta arrangiata a ridosso di un lungo tubo forato, da cui zampillava un’acqua gelida, correvamo in massa sotto una enorme copertura che fungeva da mensa, per una frugale colazione all’italiana, molto diversa dagli omelette o dagli affettati misti che ci mettevano a disposizione a Nisida. Non importava gran che se la caffeina contenuta nel caffellatte non ci svegliava del tutto, visto che fino a metà mattinata i nostri istruttori dell’Esercito, impegnati con i loro allievi, non potevano raggiungerci per impartirci le loro lezioni teoriche e pratiche. Avevamo perciò tutto il tempo per prendere il sole, organizzare programmi per la serata, goderci l’aria buona, e così via. Ma appena gli istruttori si facevano vedere, era tutta un’altra musica.
Ben presto apprendemmo elementi di armi e tiro, minamento e sminamento, camuffamento e inganno, topografia, tecniche d’assalto a postazioni difensive, ecc. ecc.  Le lezioni teoriche e pratiche includevano tutte le specialità dell’arte militare terrestre atte a completare la nostra preparazione in senso interforze.
Come il lettore già sa, l’arte militare navale per noi, dopo l’uscita in mare con le corvette,  non aveva più segreti.
Devo ammettere onestamente che, alle prese con queste materie non soggette per noi ad alcun esame, ci divertimmo parecchio, sparando al poligono di tiro e lanciando una marea di bombe a mano, definite armi ad effetto morale perché il maggior risultato da esse prodotto era quello sonoro. Erano in fondo assimilabili ai nostri “fuochi fatui”, solo che esse per fortuna erano dotate di sicura.
Imparammo perfino a far detonare, ad una distanza da noi sempre più ridotta, varie cariche di esplosivo, sfruttando le tecniche atte a proteggere le parti vitali del corpo da eventuali frammenti proiettati dall’esplosione. In queste esercitazioni per guastatori, ci divertimmo a fare uno scherzo al Gonio, che, pancia a terra nei pressi della deflagrazione, giurava d’aver sentito i detriti picchiettare sul suo elmetto. Alla successiva detonazione, quelli di noi che aspettavano il loro turno di esercitazione gli fecero piovere sulla testa una scarica di sassi che lo sorprese e fece ridere anche il nostro simpatico istruttore, benché fosse stato colpito anche lui in varie parti del corpo dalla nostra grandinata. Da allora, quando dovevamo schivare qualche pericolo, bastava dire: “Attenti ai detriti!”. E subito tutto il Rostro stava in campana.
Al campo d’arma, al quale dopo di noi nessun altro corso dell’Accademia Aeronautica fu più in grado di partecipare a causa della crescente densità dei nostri programmi estivi, capitò di tutto, a cominciare da Pochetto che, al nostro rientro dalla libera uscita, discretamente interrogava l’uno e l’altro di noi per sapere quanto avessimo pagato le consumazioni bevute al Lupo Bianco. Forse non gli tornavano i conti dei colpi di vita che spesso andava a fare in quel ritrovo.
E credo bene che i conti non gli tornassero, dato che ci eravamo passati la voce di rispondergli, ammesso che la sua domanda fosse stata in qualche modo compresa,  d’aver speso cifre irrisorie, laddove lui, come tutti, beccava delle stangate solenni.
Ma se si vuole passare per le armi le informatrici del nemico, bisogna pur fare qualche sacrificio personale.
A Pievepelago, il nostro collega Bacillo mise da parte i suoi acciacchi e gli unguenti puzzolenti dei suoi frati erboristi, prendendo un ritmo di vita più sano e spensierato. Favorito così dall’assenza di odori nauseabondi sull’epidermide, trovò l’amore in una piacente signora del luogo, dotata di reggiseno da alpeggio, nel fior fiore della menopausa. Ritornato al campo, tra l’altro in colpevole ritardo, lo vedemmo continuare a sputacchiare nervosamente. Può essere che il sapore del leccalecca ricevuto come dono di commiato dalla signora, da noi subito soprannominata “la vecchia”, non fosse stato di suo gusto.
Al pari del famoso Fanfulla da Lodi, celebrato come Cavaliere di gran rinomanza, il nostro compagno  Only You “…..invitato fu un dì in una stanza / da una donna di facile amor”, come diceva una vecchia canzone goliardica. Ma lui, nella pugna, anziché le ferite di Fanfulla comprovanti un’aspra tenzone combattuta fino all’ultimo alcova, rimediò soltanto un poco eroico arrossamento sul mento, che lì per lì non riuscimmo a spiegarci. La ragione dell’inconveniente la venimmo casualmente a scoprire quando lo incontrammo il giorno dopo in compagnia della sua pantera, da noi subito battezzata come “La donna baffuta dell’Abetone, detta Musmè, la Venere pelosa”.
Invece un vulnus più propriamente fanfulliano, dovuto ad un attacco proditorio da parte di una ragazzotta del luogo venduta al nemico, lo rimediò Spring il quale, ancora oggi, ringrazia la sua buona stella e gli speziali del luogo se riuscì a salvare la pelle (o la pellecchia, non ricordo bene).
Anche il Dadola, per la prima volta uscito dai confini del Regno Borbonico che lo aveva fraternamente assimilato, si mostrò entusiasta del contesto sociale muliebre da lui incontrato nei borghi appenninici viciniori al campo e appena evacuati dal nemico in rotta, tanto che fu sentito esclamare imprudentemente più volte ed ad alta voce: “Evviva il Nord!”.
La sua ragazza di Napoli, quando fu dettagliatamente informata delle circostanze e delle ragioni di tanto entusiasmo, lo perdonò solo dopo averlo sottoposto a mesi di penitenza e ad una sofferta, ma depurativa, cura di vitto ….in bianco.
Per la rabbia del tradimento del Dadola fatto a dispregio del Regno delle Due Sicilie che lo aveva generosamente adottato, anche l’ultimo in linea dinastica dei Borboni, che viveva a Napoli lontano dalla vita pubblica, preferì ritirarsi di nuovo nel forte di Gaeta, preoccupato di un possibile rigurgito rivoluzionario, ora per allora, del popolo campano.                     
Purtroppo Spalla di Vetro proprio lì incontrò la seconda delle cose che non riuscì ad evitare, vale a dire un proiettile calibro 9 lungo, ma fortunatamente se la cavò  senza danni permanenti e con una punizione di dieci giorni di rigore.
Se ne stava, infatti, sotto la tenda a coccolare la sua pistola tedesca a canna lunga, quando un colpo partito accidentalmente dall’arma gli attraversò in diagonale la coscia, sfiorando per un nulla l’arteria femorale.
Fu portato prontamente all’ospedale più vicino dove, ai sanitari che lo stavano curando, dichiarò ripetutamente di essersi ferito da solo, pulendo l’arma. L’inchiesta delle autorità militari, giustamente pignole, si concluse tra mille dubbi e con molta benevolenza, con una proposta di sanzione disciplinare di rigore a suo carico. Spalla di Vetro la scontò appena ristabilito, e tutto finì lì.
Passarono dieci lustri e poco tempo fa, in occasione dei festeggiamenti ufficiali per il cinquantenario della nostra entrata in Accademia, il Rostro decise di organizzare in territorio neutro, il Circolo ufficiali della Marina di Roma, un pranzo conviviale con gli appartenenti al 13° corso di Modena.
Ci ritrovammo assieme con qualche acciacco e parecchi capelli bianchi in più, ma con lo stesso spirito di allora, a commentare le nostre passate avventure campali.
Fu sorprendente il fatto che per loro il ricordo più vivo di Pievepelago fosse quello di Spalla di Vetro che si era ferito per imperizia, e ancora ne sorridevano. Ma rimasero letteralmente di stucco quando noi, conoscendo come erano veramente andate le cose, spiegammo loro che, in verità, a far partire il colpo di pistola era stato uno dei loro colleghi, maneggiando maldestramente quell’arma.
Seppero così che Spalla di Vetro, nonostante lo shock ed i forti dolori,  aveva avuto la forza e la presenza di spirito per controbattere le contestazioni che i medici, in base ai dati balistici dell’incidente, rivolgevano alla sua descrizione dell’incidente, tra l’altro suffragata dalle nostre testimonianze. Da persona generosa, il nostro collega aveva preferito pagare da solo pur di evitare al collega dell’Esercito una probabile dimissione d’autorità dall’Accademia Militare.
Il Rostro aveva collaborato a tutelare questo segreto per più di mezzo secolo, ed altrettanto aveva fatto lo sparatore, rimasto definitivamente ignoto.   
Ho già accennato al segno lasciato in noi da questa comune esperienza con i commilitoni di Modena con qualcuno dei quali, nel corso della carriera, ci siamo talvolta incontrati in varie riunioni o abbiamo condiviso posizioni a livello interforze, sempre con grandi segni di cordialità d’ambo le parti.
Il senso di appartenere a due corsi tra loro gemellati lo ereditammo da quei venti giorni di vita all’aria aperta, marciando insieme per i tratturi scoscesi, mangiando gli stessi i meloni troppo maturi della assai discutibile mensa da campo, vivendo insieme i nostri rispettivi sogni, condividendo le ore libere, sempre disponibili gli uni per gli altri. Da entrambe le parti era riconosciuto l’impegno, la serietà e lo spirito di sacrificio con cui veniva affrontata la dura trafila da allievo ufficiale.       
Era quanto bastava per creare una salda stima e simpatia reciproche, che ci avrebbero fatto collaborare apertamente anche negli anni a venire, al servizio del nostro Paese.
Non c’è da stupirsi se uno degli ultimi giorni di campo d’arma, al rientro dei pullman dalla libera uscita, l’ufficiale di picchetto e tutto il personale di guardia si videro sfilare sotto il naso una massa di allievi delle due Accademie con una divisa sui generis. Ci eravamo scambiati parte delle divise d’ordinanza, come per dire che, da quel momento, 13° corso e corso Rostro avevano un legame speciale.
Anche per questa bravata finale ci furono dei puniti, ma a noi andava bene anche così!   


 
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