Ricognitori - Rostro 1956

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Ricognitori

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RICOGNITORI


UN VOLO… CON LE SCARPE SPORCHE


Siamo nell’ormai lontano 1961, sull’aeroporto di Villafranca Veronese, sede della 3^Aerobrigata Caccia-Ricognitori. E’ autunno inoltrato, piove da diversi giorni. La visibilità è sufficiente per i decolli e gli atterraggi, ma le condizioni generali sulla Pianura Padana non consentono l’effettuazione di voli di addestramento. Si passa la giornata nella sala operativa di Gruppo dove c’è sempre qualcosa da fare: ripassare le procedure di emergenza della sicurezza del volo, preparare piani di volo per quando il tempo sarà migliore e si potrà riprendere l’addestramento al volo a bassa quota, prima forma di addestramento della specialità. Un’altra giornata di pessimo tempo volge al termine e, occhio croce, domani non sarà migliore. In ogni caso il programma di volo per  domani prevede per me una missione particolare: decollo prestissimo, prima dell’alba e navigazione a lungo raggio, coprendo praticamente tutto il territorio nazionale. Il tutto per fornire un bersaglio alle postazioni radar, missilistiche e di caccia-intercettori nel quadro di un’esercitazione nazionale del sistema di Difesa Aerea. Ma con questo tempo… chissà, probabilmente tutto verrà annullato.

Si cena e si passa la serata al Circolo Ufficiali: sono belle queste serate al circolo, specie se fuori piove: gli scapoli tirano a fare mezzanotte giocando a carte; si ride, si scherza e un grappino tira l’altro. Fuori il diluvio non accenna a diminuire. Poco male, vuol dire che la notte sarà lunga e tranquilla, invece… Il mio sonno è profondo quando bussano alla porta della mia cameretta. Accendo la luce: sono le tre. E’ il piantone della palazzina Ufficiali : “Signor tenente, la campagnola è venuta a prenderla. La aspettano al gruppo”.. Possibile? E’ cambiato il tempo? Mi affaccio alla finestra.  Macché, piove che Dio la manda! Non si vedono nemmeno gli alberi del giardino di fronte. Mah, forse si aspetta ancora per decidere il rinvio del mio volo, fino all’ultimo momento utile. In ogni caso mi affretto, indosso la combinazione di volo, infilo gli stivali, una rapida sciacquatina agli occhi, la barba..non occorre, non è ancora cresciuta, salgo sulla campagnola che in breve mi scarica al Comando di gruppo, una palazzina illuminata di fronte alla quale si intravede la linea di volo: una fila di aeroplani RF84F “Thunderflash”, in dotazione al Gruppo.  Si tratta di aerei in linea con i tempi, capaci di volare velocità supersonica, ad altezze che raggiungono i 13.000 metri. Ora sono lì in bella fila, tutti ancora incappottati, sotto la pioggia. Qualche specialista, anche lui incappottato,  con la torcia in mano si aggira controllando qua e là qualcosa. Entro in sala operativa. Il capo Ufficio operazioni, un capitano di qualche anno più anziano di me, mi passa l’ordine di missione…“ma con questo tempo?” balbetto. “Che problema c’è?, tanto, sopra è sereno!”. Bella scoperta, sopra è sempre sereno! Sembra che non ci sia niente da fare. Guardo il piano di volo: uscita su Ferrara a 15.000 piedi Bologna a 28000 piedi e poi alla stessa quota Genova, Bastia, Cagliari, Palermo, Catanzaro e Salerno. Qui discesa rapida fino a 1000 piedi per fotografare un ponte stradale nelle vicinanze di facile individuazione, risalita a 28000 piedi verso l’aeroporto di Amendola e finalmente atterraggio. In tutto 2500 Km in quasi tre ore.

Rassegnato prendo paracadute, salvagente, battellino e, carico come un mulo, mi dirigo sotto la pioggia verso l’aeroplano che mi è stato assegnato. Lo specialista, torcia in mano, mi aiuta a salire a bordo. Col suo aiuto metto in moto in fretta: devo sbrigarmi per poter chiudere il tettuccio altrimenti finisce che con questa pioggia mi si riempie l’abitacolo! Mentre il motore gira, eseguo i controlli previsti. Anche lo specialista controlla e mi risponde con segnali della torcia. Un ultimo segnale: per lui tutto è a posto e si allontana verso il Comando di Gruppo. Ora sono solo, accendo la radio e contatto la torre, che mi dà le ultime istruzioni e seguendo l’itinerario segnato dalle luci azzurre dei raccordi, mi dirigo verso la pista. Un’ultima occhiata agli strumenti, tutto motore e.. via! La pista scorre velocemente e, raggiunta la velocità di 150 nodi stacco, e immediatamente tutto scompare, pista, luci e tutto il resto. Sono già dentro le nuvole, l’abitacolo è caldo e confortevole, le ultime istruzioni via radio mi fanno sentire meno solo;  sono passate da poco le quattro e sto sorvolando la città di Verona. Quanti pacifici cittadini, svegliati nel cuore della notte staranno sacramentando? Pazienza, possono soffrire un po’ anche loro.In salita, dirigo su Ferrara e intorno ai 14000 piedi sbuco fuori dalle nuvole. Un mare di stelle sopra di me e un po’ di luna illuminano un’infinita distesa di nubi. Gli strumenti mi dicono che sto sorvolando il radiofaro di Ferrara. Continuando la salita dirigo su  Bologna.Ora mi trovo alla quota di 28.000 in rotta per Genova. A questa quota ascolto le comunicazioni radio di innumerevoli stazioni, in volo e a terra: ormai è l’alba e anche il  traffico aereo si sta risvegliando: le comunicazioni si intrecciano e io mi sento meno solo. Lasciato il radiofaro di Genova punto verso la Corsica: si sta facendo giorno e il mio aeroplano è illuminato dai primi raggi del sole. Sotto è ancora buio, ma la copertura delle nuvole non è più così compatta. Ora sono su Bastia e non ci sono quasi più nuvole: vedo chiaramente il mare e la Corsica sotto di me. Non ho più bisogno di radioassistenze, il tempo volge chiaramente al bello e posso proseguire a vista: sotto di me c’è una carta geografica ed è facilissimo orientarsi. Ad un tratto ricevo una visita inaspettata: due Mirage dell’Aeronautica Francese con le inconfondibili coccarde bianco, rosso e blu mi si affiancano, evidentemente anche l’Aeronautica Francese è interessata all’esercitazione. I piloti si avvicinano, ci salutiamo con la mano: un’ intercettazione condotta a regola d’arte!
I
Prendo nota della posizione e dell’ora dell’evento per la relazione che dovrò fare al rientro e proseguo. Ora il tempo è splendido! Ho sorvolato tutta la Sardegna, si avvicina la Sicilia, il Mediterraneo è di un blu pastello..mi sento ripagato di tutta la tensione della prima parte del volo. Sorvolo tutta la Sicilia, Catanzaro e poi su, verso Salerno. Qui aerofreni fuori, manetta del motore al minimo e giù in picchiata su quel ponticello stradale. Scatto una serie di foto, serviranno per documentare la mia presenza sul posto a quell’ora. Siamo giunti quasi alla fine: con tutto motore risalgo in quota per Amendola, quasi alle pendici del Gargano. Contatto la torre per le istruzioni per l’atterraggio. Purtroppo non è finita: sta arrivando in pista un banco di nebbia, mi ordinano di accelerare la discesa e di contattare il radar di avvicinamento: dovrò fare una procedura guidata. E se non sarà possibile l’atterraggio, dovrò dirigermi verso Rimini, dove sembra non ci siano problemi, il carburante a bordo non è molto, ma sufficiente per arrivarci.
Eseguo gli ordini del radar, precisi, rassicuranti. Alla fina della discesa un ordine perentorio: “la pista è davanti a voi; proseguite a vista”. Solo che non vedo niente: sono a pochi metri dal suolo e la nebbia è fitta. Decido di rinunciare, entro con tutto motore, rassegnato a proseguire per Rimini. Qualche secondo e mi accorgo di essere sulla pista. La nebbia ha coperto solo la prima metà. Rapida decisione, mi allargo un po’ sulla destra, inverto la rotta e mi presento per l’atterraggio nella direzione contraria. Poso le ruote a terra e sono nella nebbia dove termino la corsa di atterraggio. Una camionetta con delle luci gialle ed un grande scritta “Follow me” mi attende. La seguo e mi trovo su un piazzale dove degli specialisti mi fanno cenno di parcheggiare. Finalmente spengo motore. Appoggiano una scaletta all’abitacolo, mi slaccio le innumerevoli cinghie, mi accingo a scendere, bagnato fradicio: ma non è la pioggia di Villafranca, ma soltanto sudore: nella rapida discesa la regolazione della temperatura in cabina era rimasta quella dei 28.000 piedi ed io non me ne ero accorto, avevo altre cose cui pensare..

A terra vedo avvicinarsi una macchina blu. E’ il Colonnello Monti, il Comandante della base, un ufficiale che ha fatto la guerra e che ha molte decorazioni, ma ha anche la fama di un personaggio piuttosto severo. Alto, imponente, con due baffi che non promettono niente di buono, risponde al mio saluto. Si avvicina e mi squadra dall’alto in basso, soffermando lo sguardo sui miei stivaletti da volo che conservano molte tracce del fango di Villafranca. “Molto bene, dice, abbiamo seguito il suo volo; nulla da dire. Ma si ricordi, la prossima volta: qui si viene con le scarpe pulite!” Non me l’aspettavo.. “Ma Comandante, dico, con il diluvio che c’era a Villafranca..”. “Basta così, ribatte, un ufficiale non si giustifica!” Si volta e si dirige verso la macchina. Io mi avvio verso la campagnola e chiedo di andare al bar della linea di volo: mi sono ricordato che non ho ancora fatto colazione. Un cappuccino, due brioche e poi alla sala operativa per il piano di volo par Villafranca. A Villafranca il tempo è splendido, mi assicurano. Ritorno al mio aeroplano. Fra un’ora sarò a casa e potrò lucidarmi gli stivali.

Non so se il mio volo è stato di qualche utilità per il sistema di Difesa Aerea. Ma io qualcosa ho imparato: che in volo si va con le scarpe pulite.

 

SOGNARE IL CIELO AD “OCCHI CHIUSI”


Era una bella giornata di sole, una giornata ideale per stare all’aperto a contemplare i filari di viti della campagna a ridosso della rete aeroportuale, accesi dai primi rossastri colori autunnali.
 
Poco oltre questo scenario bucolico, si profilava, solenne, la collina del Sacrario di Custoza e più in là, nella perenne foschia, il pretenzioso Monte Baldo che, per dirla alla Torelli, si credeva Monte Bianco con l’accento gardesano.
 
Di lì a poche settimane, nelle giornate di nebbia al suolo, a chi di noi fosse stato in volo, il suo profilo - emerso dalla grigiastra coltre nebbiosa - sarebbe sembrato un’isola in mezzo al nulla, tuttavia rassicurante orientamento per la via di casa.
 
ll mio compagno di Corso d’Accademia ed io eravamo gli ultimi arrivati al Gruppo delle Streghe, sfornati alla fine di giugno dalle scuole di volo pugliesi a giusta cottura, dopo ben 4 anni di lenta lievitazione.
 
Da quasi quattro mesi, eravamo impegnatissimi nelle attività di addestramento per il conseguimento della nostra prontezza operativa sul velivolo da combattimento, lo RF84F che, a quel tempo, equipaggiava felicemente quasi tutte le Aeronautiche dei Paesi della NATO.
 
Tuttavia, come voleva la prassi, da nuove Streghe non ancora smaliziate sull’uso professionale della loro scopa volante, eravamo i candidati predestinati ad assolvere anche gli incarichi a terra più disparati e sovente noiosi, ovviamente nel tempo libero dalle missioni di volo e dallo studio dei manuali tecnici e delle procedure di impiego del nostro velivolo di dotazione.
 
E va anche detto che questa nostra disponibilità sarebbe durata per ulteriori sei mesi, prima di onorare degnamente il nostro ruolo di piloti militari “combat ready” con l’aquila turrita sul petto della uniforme.
 
Fu così che, un po’ per l’aria tiepida degli inizi di un nuovo anno scolastico, e  un po’ per la consapevolezza di dover accettare di buon grado ogni incarico extra con  rinnovato spirito di servizio, non ci sentimmo per niente contrariati quando il Comandante di Gruppo assegnò a noi due, da poco recapitati lì “…col  camion della spesa del Direttore di mensa” (sic!), l’incarico di accogliere e  assistere una scolaresca che, accompagnata dagli insegnanti, avrebbe fatto una visita conoscitiva alla nostra sede.
 
Devo ammettere, per sincerità, che - con un filo di malizia - considerammo   perfino gradevole la prospettiva di stare al sole incontrando qualche ragazza in buona salute, allevata dalla mamma a zabaglioni mattutini di uova fresche, esemplare di solito presente nelle ultime classi delle nostre scuole medie superiori.
 
Ci stavamo mentalmente preparando a sfoderare la nostra galanteria di cavalieri del cielo, quando – preceduto da una campagnola del Corpo di guardia - vedemmo presentarsi sul piazzale del Gruppo non già un pullman superturistico, coi candidi poggiatesta di lino, prescelto dal consiglio d’istituto di un liceo di gran nome, bensì un più modesto autobus di color carta da zucchero sbiadito, con una trentina di posti a sedere, generosamente concesso dal comune di provenienza ad un istituto di ragazzini d’ambo i sessi e alle loro maestre, i quali avrebbero potuto fare quasi tutto in quella gioiosa  mattinata di gita scolastica al 28°Gruppo di Volo, dicevo tutto, tranne che vederli, finalmente, quei nostri aviogetti che sentivano rombare in aria senza poterli ammirare.
 
Perché i nostri ospiti erano tutti ragazzini ipovedenti, se non completamente privi della vista, ospiti di un istituto sito in un remoto paese del circondario.
 
Si sa che gli istituti caritatevoli difficilmente hanno sede a Taormina, a Sirmione o a Abano Terme, men che meno a Capri o a Portofino, località queste ultime forse già totalmente precettate ad ospitare congressi medici che si occupano di ciechi, sordomuti o comunque portatori di effettive disabilità, più che di alternative abilità, come pomposamente vengono definiti i loro assistiti.
 
E a questa mistificazione di una realtà drammatica fanno ancora oggi, da eloquente testimonianza, le irrisorie pensioni concesse dal nostro “altrimenti munifico” paese a chi è nato più sfortunato di noi.
 
Vedendoli scendere guardinghi dagli scomodi gradini del loro mezzo, aiutati dalle accompagnatrici che li allineavano, mano nella mano, obbedienti, in fila per due, avrei voluto che il cemento del piazzale si fosse aperto sotto i miei piedi e una voragine mi avesse ingoiato.
 
Mi sentii innanzi tutto inadeguato a parlare del volo a dei bambini privi di quelle piccole esemplarità, costruite nella loro memoria  giorno dopo giorno, con le quali i cosiddetti normodotati semplificano i fenomeni naturali complessi e ne comprendono quanto meno la funzionalità, come nel caso del moto  nel fluido, avendo visto le rondini volteggiare in aria, ovvero i pesci rossi nuotare nell’acquario, o anche solo i colori di una margherita arredare con un piccolo emozionante prodigio l’orlo di un fosso di campagna.
 
Ma questi ometti con meno di dieci anni avevano nella memoria solo sacrifici e rinunce.  
 
E ancora, da orgoglioso, quale ero stato fino a quel momento, di aver raggiunto numerosi traguardi e saltato diversi ostacoli davanti a me, mi sorpresi d’un tratto vergognoso di me stesso e delle mie stesse abilità, per quanto ancora in fieri, a fronte del loro disarmato isolamento interiore, forse anche privo di stimoli luminosi di una qualche valenza.
 
Insomma, mi sentii in colpa e mi prese un senso di scoraggiamento, che nascosi prontamente sotto un sorriso radioso, ma invero avevo la morte nel cuore, a cui si aggiungeva un forte biasimo per la leggerezza organizzativa con cui tale visita era stata programmata.
 
Nel frattempo, aiutati dai nostri fidati specialisti, bimbi e accompagnatori erano stati suddivisi in gruppi e, col mio, mi accinsi a fare da Cicerone vicino ad un aeroplano piazzato in zona sicura fuori dalle vie di rullaggio..
 
La maestra che avevo con me deve aver capito il mio imbarazzo, perché si affrettò ad informarmi a voce alta che ciascuno di loro aveva buoni occhi nelle mani con cui “vedevano” le cose, ed io colsi prontamente l’occasione per farmi sfiorare il viso da loro, tanto le loro mani, per quanto abili, il mio disagio non lo avrebbero certo rilevato. Ero però anche determinato a dar loro qualcosa, visto che avevano scelto di venire da noi, e allora, radunai il mio gruppo e girammo attorno all’aereo in mostra, guidando le loro mani lungo i bordi delle ali, del muso aerodinamico affilato, dei grossi serbatoi sub - alari, mentre io raccontavo a cosa servivano gli alettoni mobili e il cono di scarico della turbina ancora tiepido, le gambe del carrello e tutte le altre cose che essi in sequenza andavano prontamente a tastare.
 
Poi, ebbi l’idea che a loro avrei dovuto parlare piuttosto di cielo e del perché io e i miei compagni ci andavamo, e mi venne da dire che quel cielo era lo stesso nel quale volavano anche gli Angeli veri, con le loro ali piumate e silenziose, mentre le nostre ali erano molto rumorose.
 
Che gli Angeli veri aiutavano tutti, specialmente i bambini, a evitare i pericoli. Che quando ci andavamo noi con l’aereo, dovevamo rispettare le altezze dal terreno che ci venivano date, per non invadere i loro spazi, perché anche loro erano indaffarati a volare di qua e di là per proteggere le persone che venivano loro affidate
 
Che noi aviatori le altezze le misuravamo in Angeli, e non in metri o in piedi, e che le nuvole di pioggia o i temporali potevano arrivare molto in alto, fino a 40 Angeli. Che, a differenza degli Angeli che erano tutti buoni, sulla terra c’erano purtroppo anche persone malvage che avrebbero potuto portare pericoli nelle nostre case, e che noi eravamo lì a fare la guardia per impedire a costoro di farlo.
 
E infine, che anche noi, al calduccio dentro l’aereo, tante volte avevamo bisogno di qualcuno che ci aiutasse a ritrovare la strada del ritorno, come avrebbero fatto le loro maestre riaccompagnandoli a casa, al termine della gita scolastica.
 
Gli scolari mi ascoltavano silenziosi, con i loro occhi sterili semichiusi. Sembravano riflettere e figurarsi le mie descrizioni, e tuttavia la mia immaginazione forse non corrispondeva alla loro, sicché la mia pena aumentava e non sapevo che cos’altro dire ancora. Mi interrompevo per far loro ascoltare il rombo del motore di qualche missione in decollo, precisando che noi però quel fracasso lo sentivamo attutito nel nostro posto di pilotaggio, era come se ce lo fossimo lasciato dietro di noi, e che eravamo contenti di stare lassù da soli, e ogni volta che ci andavamo, eravamo felici.   
 
Li assicurai che, se mai avessi incontrato un Angelo nelle affollate vie del cielo, gli avrei raccontato del mio incontro con loro e lo avrei pregato di correre a salutarli in sogno e di dire che li avrei aspettati, se avessero voluto ritornare a trovarmi ancora.
 
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Io questi ragazzini, subentrati al posto delle avvenenti liceali, non li ho mai più dimenticati e davvero non so cosa darei oggi, da nonno, per sapere come è continuata la loro vita, dopo quella giornata di sole autunnale, tiepido e gradevole, proprio dell’inizio di un nuovo anno scolastico.
 
Con loro sorridevo, ma avrei voluto piangere, ripudiare l’arroganza per i miei successi e, invece, riconoscere i loro, che accettavano senza disperazione la loro crudele “diversa abilità”. La loro umanità deprivata della luce degli occhi era notevolmente superiore in tutti i sensi a quella dei normodotati e perfino dei superdotati come eravamo noi, che ci arrabbiavamo per ogni banale contrarietà.
 
Guardai attorno a me lo scenario dei colori delle foglie delle viti viranti all’ocra, la collina di Custoza e tutto il resto che essi non avrebbero mai contemplato, e mi sembrò desolante ed immeritato.
 
Mi augurai solo che la storia degli Angeli in volo sopra le nubi restasse nei loro ricordi, insieme alla fisionomia della mia faccia, che mai aveva incontrato tante mani indagatrici. Ancora oggi li ho nel cuore e forse dovrei convincermi che gli Angeli d’alta quota li ho davvero incontrati anch’io, quando sono venuti a trovarmi non in volo con le loro bianche ali piumate, bensì con un vecchio bus sgangherato, color carta da zucchero sbiadito, che a loro è forse apparso come una lussuosa e luccicante berlina.                      
 
 
(di T. Basile – Dicembre 2020)            
 
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